Quando Monza si tinge di rosso | Pirelli

Quando Monza si tinge di rosso

Quando Monza si tinge di rosso
Quando Monza si tinge di rosso

E' il circuito più veloce del Mondiale: le sue curve non elettrizzano quanto certe pieghe da capogiro di Silverstone o di Spa o di Suzuka (ma la Seconda di Lesmo, nei decenni, qualche brivido assoluto l'ha dato: ai piloti soprattutto), ma i suoi rettilinei da oltre 370 chilometri l'ora, qualche anno fa, e le conseguenti frenate da velocità quasi spaziali ai modesti 70 all'ora imposti da certe chicane, quella dopo i box su tutte, impongono sollecitazioni ai limite e anche un po' oltre. Motori, telai, sospensioni e pneumatici lottano per non venire schiacciati da carichi aerodinamici verticali da capogiro alla fine dei rettilinei. Ma alla fine, è la velocità massima a scrivere la legge. O di puro motore; o di capacità di volare in quella tipica condizione di quasi zero carico, di velocità quasi da decollo che tenderebbero a staccare le monoposto dall'asfalto. Condizione rara: molti piloti l'hanno dipinta quasi come un surfare; un galleggiare, già con qualche problema a tenere la linea ideale sul dritto.

Da queste parti hanno vinto un po' tutti. Già nel 1971, uno degli ultimi anni con la pista praticamente senza chicane, un certo Peter Gethin vinse a 241 di media. Non sul giro: sulla distanza del Gran Premio! E cinque anni dopo, al termine di una gara che gli annali ricordano soprattutto per il clamoroso quarto posto di Niki Lauda che rientrava (le ferite al capo ancora sanguinanti) dopo soltanto sei settimane dopo il rogo del Nurburgring e successiva doppia estrema unzione, la March vi colse l'ultima vittoria in F1 della sua onoratissima carriera. Al volante Ronnie Peterson: svedese da controsterzi rallistici a 240 all'ora, fregandosene che quella monoposto un po' rappattumata montasse addirittura piccolissimi freni da Formula 2. Tanto, a Monza, a che cosa serve frenare?...

Dopo questa lunga introduzione, eccoci al tema centrale: Monza rossa. Perché Monza, come si diceva, non guarda nessuno. Festeggia chiunque abbia la velocità necessaria per  gestire al meglio quai momenti di gara al limite delle leggi fisiche. Ma quando questo qualcosa è una Ferrari, allora il suo pilota esce dall'Autodrono incoronato come una divinità. Tanti gli episodi. Lauda, sempre lui, un anno prima dell'episodio raccontato poche righe fa uscì da Monza campione del Mondo. La Ferrari non si laureava campione del mondo dal 1963: Niki diventò automaticamente un eroe. Nel 1982 Mario Andretti prese il volante della Rossa per riempire uno dei tanti buchi umani del Cavallino di quell'anno. Morto in pista in Belgio Gilles Villeneuve a maggio; gambizzato da un altro incidente terribile nella pioggia Didier Pironi ad agosto a Hockenheim; infortunato a una spalla anche Patrick Tambay che già era approdato a Maranello come riserva, ecco che toccava al Marione dei due mondi. Chiamato in extremis, Andretti per quel GP d'Italia. Lui, istriano di quando l'Istria era ancora italiana, poi campionissima in America a sun di trionfi anche sugli ovali di F. Indy, si era laureato campione del mondo F1 nel 1978 con la Lotus. Poi, nei GP, più niente o quasi. Ed eccoci alla chiamata da parte di Enzo Ferrari. 

Bene: Andretti atterra a Malpensa il mercoledì a va in macchina a Maranello. Subito sosta tecnica per fare il sedile a sua misura. Breve attesa e pranzo al ristorante Cavallino, proprio di fronte alla vecchia entrata della Ferrari: tortellini, un assaggio di arrosto, vino rosso e dessert. Quindi in pista a Fiorano per il primo test con quel mostro turbo da 800 cavalli: novanta e rotti giri e record del circuito. A seguire: trasferimento Maranello-Monza in moto con la moglie, dormendo una notte da parte sull'Appennino, come in vacanza, e quindi l'Autodromo. Trafila solita: test, colloqui con gli ingegneri, interviste e al sabato pole position! E in gara, domenica, soltanto un guasto tecnico poté separarlo dalla vittoria. Un mito: lasciare il circuito sottraendosi all'abbraccio della folla impazzita fu quasi più difficile che centrare la pole position.

E poi Schumacher. Tempi non recentissimi. Tempi indimenticabili. Prima vittoria nel 1996, primo anno in rosso. Poi altre quattro: le ultime in quei cinque anni magici, quelli dei cinque titoli consecutivi per i quali Schumi ancora oggi a Monza è un nome che si pronuncia con le labbra che tremano. Ecco perché Pirelli ha scelto di fare consegnare, sabato, la Pole Position Tyre all'autore della pole, da Mick Schumacher. Mick, il figlio di quel Schumi che è impossibile dimenticare.