Negli anni ’80 Andretti è un vero mito. Si affaccia alle corse più importanti suo figlio Michael, che nel 1993 arriverà a correre in F1 a fianco di Senna sulla Mclaren, ma Mario continua a correre, imperterrito, e a dispensare perle di saggezza. “Se stai andando al massimo e hai tutto sotto controllo -sottolinea in un’intervista - significa semplicemente che non stai andando al massimo”.
E i miti, si sa, tendono ad allargarsi. Ma quando nelle corse si allargano alla coscienza dei grandi progettisti, entriamo in un altro territorio. Un giorno Mario prova in America con una Reynard. Il suo progettista e direttore tecnico è Adrian Newey, più tardi maestro di tecnica F1 grazie alle sue Williams, poi McLaren, quindi Red Bull vittoriose in gare e Mondiali.
“Sono in pit lane - ricorda un giorno Newey - e seguo con lo sguardo Mario che riparte dopo una lunga sosta. In uscita dalla pit lane, grazie a un riflesso del sole, vedo da lontano che la sua ala posteriore si muove: non è fissata bene. Temo il peggio. Non abbiamo radio ed è impossibile avvertire il pilota. Lo sento dai box: motore al massimo dei giri, poi il silenzio improvviso. Prendo una macchina e insieme ad un paio di tecnici mi tuffo in pista. Quando raggiungo il luogo dell’incidente, una serie infinita di pezzi sparsi da tutte le parti. In fondo, la Reynard: semidistrutta. E Mario in piedi, che si osserva un polso. Scendo dall’auto, lo raggiungo di corsa e lui: “Goddam! My watch has stopped...”. Macchina demolita e peggio sfiorato. E Andretti si preoccupa dell’orologio che si è fermato.