All’Hungaroring non si supera: libro delle grandi verità F1, pagina 12. Ed è vero: il circuito appena fuori Budapest, direzione est, sembra fatto apposta per quelle colonne di monoposto rassegnate a tenere la posizione, poiché soltanto un errore o un guasto tecnico o un miracolo di fantasia possono alterare l’ordine in pista.
Una serie continua di curve, nessuna delle quali abbastanza veloce da mettere sotto sfida il coraggio dei piloti e la loro propensione al rischio, collega i due estremi del rettilineo principale. Una sede stradale piuttosto stretta, eccetto appunto in rettilineo, ma soprattutto una traiettoria obbligata larga quasi esattamente quanto una monoposto, visto che i lati del nastro d’asfalto si sporcano durante il weekend di gara fino a diventare aree da evitare pena la perdita di aderenza.
Tutti questi fattori sommati rendono il tracciato ungherese un inno a gare noiose. Un divieto a qualsiasi sorpasso, ovvero a ciò che per definizione rende le gare eccitanti.
E dire che già alla prima edizione il GP ungherese raccontò una storia del tutto diversa. Era il 1986: il Muro di Berlino era bello saldo e l’apertura di Budapest alla F1 occidentale e filo-imperialista sembrava una trasgressione al Patto di Varsavia, un tentativo di sfuggire alla Guerra Fredda. In sala stampa un tenente dell’esercito ungherese, Erika Laszlo, conduceva l’attività dei giornalisti con rigore e metodo militari: i telex e i fax del tempo funzionavano in modo approssimativo, le linee telefoniche erano avventurose, ma tutto filò liscio come l’olio. Ma soprattutto fu la gara a raccontare una storia speciale.