Piena epoca turbo, propulsori da un migliaio di cavalli in qualifica, pericolo clamorosamente dietro l’angolo: sia per la relativa sicurezza delle monoposto, almeno rispetto a oggi, ma soprattutto per i motori sovralimentati che significavano anche notevole rischio di fuoco. Non sempre le gare erano grintose. Il dominio targato McLaren Tag Porsche aveva prodotto nel biennio 1984-85 Gran Premi quasi in processione: Lauda e Prost magari attardati in qualifica; ma poi imprendibili in gara, fino a conquistare quei due titoli iridati rispettivamente.
Il circuito intitolato ai Fratelli Rodriguez, alle porte di Mexico City, si ripresentò tirato a lucido per rientrare nel giro grande delle corse. E tutto questo in una stagione figlia di un nuovo dominio tecnico-sportivo: quello della Williams motorizzata Honda, chiaramente la più forte in pista quell’anno. Ma caso volle che all’interno del team, indebolito a maggio dall’incidente stradale che tenne a lungo lontano dal muretto box il suo fondatore Frank Williams, una gestione figlia del disordine favorisse la competizione interna, spesso al limite dei rapporti umani, fra Nigel Mansell, al volante della Williams dalla stagione precedente, e il neo arrivato Nelson Piquet, già due volte campione del mondo (1983 e ’85, sempre con la Brabham) e quindi insignito a livello contrattuale dei galloni di numero uno.
Il campionato era quindi preda delle Williams Honda che si disputavano il titolo Piloti, mentre quello Costruttori era già al sicuro. Alla grande lotta in famiglia fra Mansell e Piquet, si aggiungevano però Prost con la McLaren e Senna con la Lotus, e per entrambi l’appuntamento con la vittoria era già scattato da tempo. Nessuno, in quella domenica scintillante nell’aria ripulita da un vento teso, degnava di un briciolo d’attenzione la Benetton e il suo giovane pilota Gerhard Berger. E sbagliava.